Guardarsi allo specchio, notare la propria immagine ribaltata orizzontalmente che ti guarda, vedere il proprio viso spesso mutato dall’unto che ricopre lo specchio in un impossibile ritratto alla William Turner, in cui assurdi luccichii convivono con puntini escrementizi di mosche che copulavano con la propria immagine giorni prima... E quella distanza che intercorre tra te e la tua immagine riflessa, che non riesci ad annullare nemmeno toccando la superficie dello specchio, strutturalmente dovuta al vetro che ricopre il cromo ma che diventa simbolo dell’impossibilità di congiungersi con se stessi, di essere se stessi, non solo spazialmente, ma anche temporalmente, visto che l’immagine riflessa è sempre otticamente asincrona, relativisticamente non-simultanea.
Nel posizionarci all’interno di due specchi affissi alle ante di un armadio (non) vediamo la nostra immagine ripetersi indefinitamente ma comunque finitamente, come ci assicurano le leggi dell’ottica, in una successione di ritratti che immortalano nell’attimo l’evoluzione degli ultimi istanti: ogni immagine è “ferma” nel passato e più l’immagine è lontana, più è immagine di ciò che eravamo... milionesimi di secondo prima.
Nel guardarci allo specchio (non) vediamo il nostro invecchiamento.
Lo sguardo muore prima dell’immagine riflessa.